Collocato nel cuore del capoluogo montebaldino, è dal 1952 sede dell’amministrazione comunale, dopo essere stato di proprietà dei Carlotti e nella seconda metà del Cinquecento dei Vimercati.
Il tempo e le esigenze umane lo hanno privato del parco e del giardino, occupandone in parte l’area con la costruzione di estranee unità edilizie che vennero demolite nel 1959: tra l’altro vi era una bella torretta, considerata simbolo di Caprino. La presenza dei Carlotti nella villa è nota dal 1632 quando il marchese Girolamo la fece ornare con uno splendido giardino e statue; nel 1653 il marchese Marcelle possedeva in Caprino una “casa da patron” e da lavorente e 190 campi di terra, dei quali 60 arativi con vigne e 13 prativi con pochi morari.
Nel 1682 la dimora è qualificata come “palazzo”, segno quindi di ulteriori ingrandimenti ed abbellimenti. Ai Carlotti la villa rimase fino al 1920, quando il senatore Andrea la lasciò alla sorella Maria, sposa del marchese Lodovico di Canossa. La loro figlia Francesca, divenuta monaca, dopo averla ereditata, la cedette al comune di Caprino. Pur al centro del paese, il Palazzo si presenta come uno spazio “appartato”, cioè con una certa autonomia.
Del resto si può storicamente rilevare, a seconda dei periodi, la combinazione dei fattori legati al lavoro che la villa sovraintendeva con le istanze rappresentative della ricchezza e della nobilità: fu infatti prima insediamento agricolo e poi dimora di campagna cinquecentesca di una famiglia che si richiamava ai valori della nobiltà veneziana. Anche quando, verso la metà del ‘700 l’impianto è ormai giunto a definizione, pur manifestando una decisa preminenza urbana, esso si asseconda alla struttura del borgo e non pretende centralità simmetrica né sfondo prospettico. Il Palazzo, dalle eleganti forme architettoniche seicentesche e già preceduto da un bel cancello, si impone per la grandiosità della facciata e per le decorazioni pittoriche dell’interno, restaurate nell’inverno 1972-73.
In molte stanze al primo piano, la parte centrale del soffitto è affrescata a figure allegoriche dalle forme piuttosto pesanti, di gusto seicentesco. Sulle pareti del salone, dipinti in cornici di stucco sagomate fingono quadri. Nei due più grandi sono raffigurate scene di caccia: in uno appaiono dei gentiluomini a cavallo e mute di cani che uccidono un cinghiale, nell’altro dei cavalieri vestiti alla foggia orientale e strani animali, come un lucertolone volante, alludono ad una caccia orientale. Negli altri riquadri i temi variano da paesaggi fantastici di laghetti e boschi a motivi architettonici con colonnati sul verde e sul rosa, con scaloni scenografici e con elaborate fontane e statue. Angioletti dipinti in cornici ovali fanno da sovrapporte. Senza dubbio originale ed eccentrica è una stanza al primo piano, nota come “sala dei sogni”. Il soffitto a volta è infatti ricoperto da una fantasiosa decorazione a piccole, divertenti figure su fondo bianco raffiguranti galeoni, personaggi vestiti alla orientale, uccellini, scimmiette, carrozze: la tradizione li fa passare per “i sogni del marchese Carlotti”. Nel centro, in una cornice, la figura della Fama tra le nuvole segue lo stesso gusto delle allegorie al piano superiore.
In una saletta adiacente alla “sala dei sogni” si trova il “Compianto sul Cristo morto”, un complesso di statue in tufo a grandezza naturale, originariamente colorate, recuperate, anche se alcune figure sono dimezzate, dall’antica chiesa del Santo Sepolcro in Caprino. Il compianto raffigura Gesù disteso sul sudario mentre Giuseppe di Arimatea gli tiene amorosamente tra le mani il capo e Nicodemo le estremità; a piangerlo la Vergine, S. Giovanni, la Maddalena ed una pia donna. Il gruppo scultoreo è uno dei più belli e probabilmente il più antico del genere nell’ambito della scultura gotica italiana testimonianza dell’intesa vita culturale che gravitava attorno alla Signoria degli Scaligeri nella prima metà del Trecento. Attribuita al maestro di Santa Anastasia che la scolpì attorno al 1320, dopo aver eseguito i rilievi del portale dell’omonima chiesa, l’opera è strettamente connessa ai gruppi delle “Crocifissioni” di Cellore d’Illasi e di S. Giacomo di Tomba ed al gruppo di statue a tutto tondo esposte al Museo di Castelvecchio di Verona. Nell’esecuzione di questo gruppo il maestro ha toccato vertici di altissima poesia: la morte sul corpo di Cristo è così palpabile e terrena da diffondere sulle figure attorno un dolore composto, ormai rassegnato. La nuova collocazione permette a chi guarda di entrare direttamente nella scena e per un momento partecipare al dolore ed al mistero che vi si compie.